Per anni abbiamo inseguito il mito della crescita economica, del PIL, dello sviluppo industriale. Indici di occupazione e di disoccupazione. Abbiamo legittimato le più spregiudicate pratiche neoliberiste, accettando la compressione di diritti, in virtù dei privilegi di pochi, che si sono arricchiti a dismisura, speculando sulle necessità di tanti.
Abbiamo accettato che venissero liberalizzate tutte le attività, scoprendo sulla nostra pelle che liberalizzare senza buon senso e norme, significa schiavizzare i lavoratori. Sono saltati orari, addio alla domenica in famiglia, le macchinette self service, i supermarket 24/24, aperti 7 giorni su 7. Un sistema che non solo non ha funzionato, ma ci ha portato ad un lento oblio, dove l’arricchimento di pochi è diventato un problema finanziario. Banche colme di denaro immobilizzato sui conti correnti straripanti di pochissimi, mentre tanti altri, vuoti, di persone che non possono accedere al credito, proprio perché privi di garanzie erose come i loro diritti.
La pandemia ci ha buttato tutto in faccia, nel silenzio delle nostre abitazioni, a riflettere sul nostro posto nel mondo, sul significato della vita. E giù di frustrazioni, violenza domestica e rabbia, nel peggiore dei casi. Film, letture, hobby, nuovi spunti e passione, nel migliore dei casi.
Ed in entrambe le circostanze abbiamo fatto i conti con noi stessi. Un reset psicologico senza precedenti, spesso inconsapevole, ma netto. Così è nata l’esigenza di conciliare la propria vita privata con il lavoro, l’urgenza di darsi una spiegazione per le incongruenze tra ciò che si è e cio che si fa.
Negli USA è chiamato Great Resignation, un fenomeno che ha portato oltre 4 milioni e mezzo di americani a dimettersi, licenziarsi dal proprio posto di lavoro. In Italia, con dimensioni e dinamiche molto differenti, si conta circa mezzo milione di lavoratori che hanno abbandonato volontariamente il proprio posto di lavoro, alla ricerca di uno migliore, o in attesa sabbatica.
Fino al 2019 si erano registrati aumenti considerevoli di burnout sul posto di lavoro, ovvero il cosidetto esaurimento nervoso, collegato allo svolgimento di mansioni professionali. In Italia si registra da anni un’impennata di ansiolitici e antidepressivi, con un aumento medio del +1,3% annuo per antipsicotici, e del + 2,1% annuo per gli antidepressivi. Un disagio che sfugge dai calcoli economici.
Un’economia che spesso ignora costi e benefici, e si ferma alle sole entrate ed uscite, come di tutti quei liberi professionisti, partite IVA, PMI che aumentano orari di lavoro, suppoenendo un’eventuale extra incasso, ed ignorano il logorio, il mancato tempo libero, l’incapacità di sviluppare hobby, interessi, reti sociali, che sono parte fondamentale della realizzazione personale. E se si realizza il personale, non può che migliorare il professionale. Esistono costi occulti di cui un bilancio economico non tiene conto, che vanno al di la del tangibile, dello scontrino, delle fatture.
La pandemia ci ha obbligato a restrizioni, chiusure, a farci sentire carenti di libertà. Carenze che abbiamo metabolizzato e che ci siamo resi conto essere delle schiavitù. Come di tempi biblici nel traffico, code negli uffici, burocrazia, lavoro sottopogato, con i salari unici in Europa per essere diminuiti negli ultimi 20 anni mentre in altri Paesi sono tutti aumentati e spesso anche di tanto. Bollette da pagare, mutui e finanziamenti per permetterci un tenore di vita che sembra appagare una vita di frustrazioni, ma è solo effetto placebo.
Dal lavorare tanto in pochi, dovevamo iniziare a lavorare poco tutti, perché siamo nati per fare molto di più che lavorare e siamo rimasti con il lavorare molto di più del tempo che ci rimane da vivere.
Ecco perché siamo sprofondati, e forse è meglio così.